mercoledì 30 gennaio 2013

Quanti siete nel quartetto?


Paul Desmond aveva già un titolo meraviglioso per la propria autobiografia: "Quanti siete nel quartetto?".  Purtroppo per noi, il brano che segue è tutto quello che pare abbia scritto.
Il sassofonista aveva l'aspetto di un contabile mite e gentile e suonava con uno stile elegante e asciutto. È ricordato soprattutto per la sua lunga militanza nel quartetto di Dave Brubeck e per aver scritto uno dei brani più famosi della storia del jazz: Take Five. Qualche anno fa mi è capitata sotto gli occhi questa sua spassosa cronaca di una giornata di lavoro. Siccome non mi risulta che sia mai stata tradotta in italiano, ho deciso di provarci io. Quella che state per leggere non ha la pretesa di essere una traduzione fedele, e mi son preso molte libertà, nel tentativo di mantenere lo stile e il senso dell'umorismo dell'autore.


Di come il jazz giunse alla Fiera della Contea di Orange.

È l'alba. Una station wagon parcheggia davanti all'ufficio di un anonimo motel nel New Jersey. Tre uomini fanno la loro comparsa: pallidi in viso, sguardi risoluti e silenziosi. La perfetta sequenza d'apertura per un filmaccio su una rapina in banca? Sbagliato. Siamo noi, il Dave Brubeck Quartet, qualche anno fa, all'inizio di una delle nostre giornate di lavoro.
Oggi ci aspetta un'offerta che avremmo dovuto rifiutare, un ingaggio per due concerti alla Fiera della Contea di Orange a Middletown, alle 14 e alle 20. A Brubeck piace arrivare presto al lavoro.
Verso mezzogiorno parcheggiamo dietro un camion di balle di fieno e individuiamo il tizio che ci ha contattati: robusto, aria da bifolco, Brusco & Stressato (come l'omonimo prestigioso studio legale del New Jersey). Chiaramente più a suo agio nel fare il giudice in un concorso di vacche che nell'ingaggiare gruppi jazz, l'omone sbircia dentro l'auto, che contiene quattro musicisti, contrabbasso, batteria e bagagli vari e – per la prima e unica volta in diciassette anni in giro per il mondo – ci viene posta la seguente domanda: “Dov'è il pianoforte?”
Lasciamo Brubeck a gestire l'emergenza e ce ne andiamo in centro per un panino e un giro di esplorazione. Per il giro di esplorazione ci vuole persino meno che per il panino, per cui per distrarmi compro una copia del Middletown Records e le cose si fanno un po' più chiare. Il titolo IL GIORNO DEL TEENAGER ALLA FIERA DELLA CONTEA DI ORANGE attraversa le due pagine centrali (una scelta importante, dato che il giornale ha quattro pagine in tutto). Gli organizzatori, soprattutto l'omone delle vacche (probabilmente costretto con l'inganno a coordinare il comitato per gli spettacoli della fiera), hanno pensato che fossimo chissà quale gruppo alla moda per adolescenti. Dio ci è testimone, non lo siamo mai stati: il nostro pubblico tipo ha perlomeno la veneranda età di ventitré anni.
Ciononostante eccoci qua, strombazzati su questa pagina pubblicitaria, insieme alle altre attrazioni della giornata: la dimostrazione di judo, l'esercitazione dei pompieri, il Wild West Show e una cosa che si chiama Animalorama (per quel che ne so, potrebbe essere un errore di battitura).
A coronare il tutto, sulle due colonne a destra, c'è una foto che ritrae i denti e buona parte della faccia di Brubeck accompagnata dalla seguente didascalia, che vi offro appena parafrasata: ASCOLTATE LA MUSICA CHE FA IMPAZZIRE I TEENAGER IN OGNI DOVE, e questo è, ahimé, l'inizio. ASCOLTATE LA MUSICA CHE HA SCONVOLTO NEWPORT, RHODE ISLAND (forse un riferimento al fatto che qualche settimana prima il Newport Jazz Festival aveva provato per la prima volta il brivido di una rissa1). ASCOLTATE DAVE BRUBECK SUONARE E CANTARE I SUOI PIÙ CELEBRI SUCCESSI: “JAZZ GOES TO COLLEGE”, “JAZZ IN EUROPE” E “TANGERINE”.2
Adesso che abbiamo capito quale sorte ci attende torniamo alla fiera3, dove ci si presenta più o meno questa scena: c'è una pista da atletica ovale piuttosto piccolina, direi quasi mini (non ho idea di quanto sia lungo un quarto di miglio, ma qui di sicuro ce ne sono pochi). Da un lato dell'ovale c'è la tribuna, che può accogliere più o meno 2000 persone; al momento è occupata da otto o nove anziani che certamente hanno pagato il biglietto per stare seduti all'ombra e farsi aria col ventaglio, piuttosto che mossi dal bruciante desiderio di ascoltare la musica che fa impazzire i loro nipotini in ogni dove.
Dalla parte opposta della pista c'è il nostro palco: una base di legno, alta circa tre metri e immensa. Evidentemente non è stato possibile localizzare un pianoforte nella Contea di Orange, dato che l'unica attrezzatura presente sul palco è costituita da un microfono e un vecchio organo elettrico. Dietro di noi c'è un tendone – da fiera, per l'appunto – dove circa duecento persone stanno assistendo a uno spettacolo di cavalli per ragazzi il quale, scopriamo leggendo il programma, è previsto debba continuare per tutta la durata del nostro concerto. Una mossa piuttosto rischiosa, soprattutto perché il loro impianto audio è decisamente più potente del nostro.
Ed eccoci attaccare con “St. Louis Blues”, il brano d'apertura per le imprese disperate. Brubeck, che non ha mai passato più di dieci minuti su un organo elettrico in tutta la sua vita, e molti di meno su quello che sta suonando ora, riesce ad emettere suoni che ricordano la manopola della sintonia di una vecchia radio Atwater-Kent. Più tardi farà alcuni importanti progressi, quali scoprire dov'è il pedale del volume e riuscire a dimenare la mano destra in modo da ottenere un effetto di tremolo (tipo quello che farebbe Jimmy Smith4 alle prese con un doposbornia letale), ma queste conquiste non aiutano poi tanto. Nel mentre, io e Eugene Wright, il nostro prode contrabbassista, ci trasciniamo dietro a turno l'unico microfono disponibile, suonando assoli ringhiosi ma destinati al fallimento, visto che l'unica cosa che riusciamo a sentire arriva dal nostro amichevole vicino: il tendone dei cavalli.
“PASSO,” ruggiscono gli speaker. “PICCOLO GALOPPO … TROTTO … E IL VINCITORE DELLA CATEGORIA DODICI ANNI È … LA PICCOLA JACQUELINE HIGGS!”
Come sempre in queste situazioni difficili, ci rivolgiamo al nostro fuoriclasse, la prima stella del gruppo, la Maria Callas dei tamburi: Joe Morello, colui che ci salvò dal disastro in più di un'occasione, dal concerto di Grand Forks, Nord Dakota, fino a quello di Rajkot, India.
“Tocca a te”, lo esortiamo, “stendili”, che di solito è come dare un biglietto aereo a un dirottatore. A sua eterna gloria, va detto che Morello si supera: tutti i piatti sfrigolano, tutti i piedi pestano (Morello ne ha più di due, non tutti lo sanno). Ed eccolo sfoderare le sue celebri terzine sui tamburi, che già scossero più fondamenta, dall'Odeon Hammersmith alla sala delle feste della Camera di Commercio; le stesse terzine che fecero diventare Buddy Rich5 più verde del solito per l'invidia.
Tutto ad un tratto lo spettacolo dei cavalli tace. Lo sventagliarsi sulla tribuna è leggermente scemato.
All'improvviso una figura umana sbuca come una furia dal tendone dei cavalli, va a schiantarsi sul lato del nostro palco e urla a Brubeck: “Ma Cristosantissimo, non è che può dire al suo batterista di suonare più piano? Mi sta spaventando a morte i cavalli!”
Essendo un gruppo che riconosce sportivamente la sconfitta, suoniamo una specie di Muzak di sottofondo per il resto del set, quindi ci dileguiamo.
Al nostro ritorno, alle 20, tutto è cambiato. È stato trovato un pianoforte, la tribuna è gremita del nostro solito pubblico geriatrico dai venticinque in su, e noi facciamo un concerto più che decente.
Nonostante ciò, veniamo oscurati dal Gran Finale della fiera: l'esercitazione dei pompieri. Alcuni cittadini sono stati avvolti in garze e bende in modo da apparire come se fossero in attesa dell'estrema unzione dopo essere saltati per sfuggire al disastro dell'Hindenburg. Invece di rimanere discretamente nell'ombra in attesa del loro grande momento, durante la serata le mummie socializzano tranquillamente con amici e conoscenti, bevendo birra e mangiando popcorn, imprimendo così all'assembramento un'atmosfera strana, quasi felliniana, nonché diminuendo considerevolmente l'impatto della loro comparsa ufficiale.
Dopo la loro parata è il momento degli eventi principali della fiera, chiaramente il frutto di mesi di meticolosa progettazione: un incendio derivato da un incidente automobilistico, seguito da un incendio causato da un incidente aereo, entrambi organizzati per essere gestiti con prontezza ed efficienza dal Corpo dei Pompieri di Middletown. A un'estremità dell'ovale c'è un'auto in equilibrio precario; dalla parte opposta c'è la parodia piuttosto impressionante dello scheletro di un aereo monomotore con la coda in su. Al centro, il camion dei pompieri di Middletown, irto di scale e manichette antincendio e straripante di volontari.
Il silenzio scende fra gli spalti. A un cenno del capo dei pompieri l'automobile viene incendiata. Il camion la raggiunge in due o tre secondi, durante i quali l'incendio raggiunge le ragguardevoli dimensioni di un fuoco causato da un mozzicone di sigaretta caduto sul sedile per, diciamo, due o tre secondi. Le fiamme vengono estinte da molti uomini dotati di svariate manichette antincendio.
Un mormorio attraversa gli spalti. Il capo dei pompieri, dolorosamente conscio che il suo momento dell'anno è imminente, dà il segnale per incendiare l'aeroplano e, allo stesso tempo, ordina al camion di prendersela comoda, affinché al suo arrivo il fuoco possa divampare in tutto il suo splendore. Il camion parte con il passo di un taxi alla ricerca di un cliente. All'improvviso l'aeroplano è avvolto da un WHOOSH! come un flash fotografico e, nel tempo che il camion flemmatico ci mette ad arrivare, il tutto si è ridotto alle dimensioni di un allegro fuoco da campeggio, grande giusto per arrostirci i marshmallow.
Più tardi, pallidi in viso, sguardi risoluti e silenziosi, quattro uomini si ammassano in una station wagon e ripartono. Non sarà come rapinare banche, ma ci si campa.

How Jazz Came to thr Orange County State Fair” Copyright © 1973 by the Estate of Paul Desmond.

NOTE di Farnedi 

1Il pubblico abituale di questo tranquillo festival jazz era composto perlopiù da studenti universitari e da coppie di mezz'età appassionate di jazz, per cui la prima rissa fu salutata come una piacevole novità, credo (NdF - nota di Farnedi).
2In realtà non c'è nulla che faccia pensare che Dave Brubeck abbia mai cantato in pubblico, men che meno che l'abbia fatto in un disco, almeno non in quelli elencati dal titolo di giornale (NdF).
3In realtà il testo recitava così: “So, now realizing – in Brubeck's piquant ranch phrase – which way the hole slopes”. Ovviamente non son stato capace di tradurre quello che penso sia una parodia di qualche modo di dire americano, ma la traduzione letterale è più o meno così: “Quindi, ora che abbiamo capito – per dirla con la colorita espressione da fattoria di Brubeck – da che parte pende il buco, torniamo alla fiera”. Anche se non son sicuro di aver capito cosa voglia dire, “da che parte pende il buco” mi fa molto ridere, per cui ve l'ho messa qua. (NdF)
4Jimmy Smith è stato probabilmente il più famoso virtuoso di organo Hammond della storia del jazz (NdF).
5Buddy Rich, storico virtuoso della batteria, famoso anche per i suoi scatti d'ira disumani. Uno dei suoi musicisti lo registrò a sua insaputa durante una delle sue rituali sfuriate dopo un concerto. Il nastro, ricco di fantasiose ingiurie e minacce di percosse altrettanto creative, dagli anni '70 si è diffuso col passaparola nel mondo dello spettacolo americano, diventando un classico (NdF).

per chi fosse interessato, ho trovato un blog con il testo originale