Paul Desmond aveva già un titolo meraviglioso per la propria autobiografia: "Quanti siete nel quartetto?". Purtroppo per noi, il brano che segue è tutto quello che pare abbia scritto.
Il sassofonista aveva l'aspetto di un contabile mite e gentile e
suonava con uno stile elegante e asciutto. È
ricordato soprattutto per la sua lunga militanza nel quartetto di
Dave Brubeck e per aver scritto uno dei brani più famosi della
storia del jazz: Take
Five. Qualche
anno fa mi è capitata sotto gli occhi questa sua spassosa cronaca di una
giornata di lavoro. Siccome non mi risulta che sia mai stata tradotta
in italiano, ho deciso di provarci io. Quella che state per leggere
non ha la pretesa di essere una traduzione fedele, e mi son preso
molte libertà, nel tentativo di mantenere lo stile e il senso
dell'umorismo dell'autore.
Di come il jazz giunse alla Fiera della Contea di Orange.
È
l'alba. Una station wagon parcheggia davanti all'ufficio di un
anonimo motel nel New Jersey. Tre uomini fanno la loro comparsa:
pallidi in viso, sguardi risoluti e silenziosi. La perfetta sequenza
d'apertura per un filmaccio su una rapina in banca? Sbagliato. Siamo
noi, il Dave Brubeck Quartet, qualche anno fa, all'inizio di una
delle nostre giornate di lavoro.
Oggi ci aspetta un'offerta che avremmo
dovuto rifiutare, un ingaggio per due concerti alla Fiera della
Contea di Orange a Middletown, alle 14 e alle 20. A Brubeck piace
arrivare presto al lavoro.
Verso mezzogiorno parcheggiamo dietro
un camion di balle di fieno e individuiamo il tizio che ci ha
contattati: robusto, aria da bifolco, Brusco & Stressato (come
l'omonimo prestigioso studio legale del New Jersey). Chiaramente più
a suo agio nel fare il giudice in un concorso di vacche che
nell'ingaggiare gruppi jazz, l'omone sbircia dentro l'auto, che
contiene quattro musicisti, contrabbasso, batteria e bagagli vari e –
per la prima e unica volta in diciassette anni in giro per il mondo –
ci viene posta la seguente domanda: “Dov'è il pianoforte?”
Lasciamo Brubeck a gestire l'emergenza
e ce ne andiamo in centro per un panino e un giro di esplorazione.
Per il giro di esplorazione ci vuole persino meno che per il panino,
per cui per distrarmi compro una copia del Middletown Records
e le cose si fanno un po' più chiare. Il titolo IL GIORNO DEL
TEENAGER ALLA FIERA DELLA CONTEA DI ORANGE attraversa le due pagine
centrali (una scelta importante, dato che il giornale ha quattro
pagine in tutto). Gli organizzatori, soprattutto l'omone delle vacche
(probabilmente costretto con l'inganno a coordinare il comitato per
gli spettacoli della fiera), hanno pensato che fossimo chissà quale
gruppo alla moda per adolescenti. Dio ci è testimone, non lo siamo
mai stati: il nostro pubblico tipo ha perlomeno la veneranda età di
ventitré anni.
Ciononostante
eccoci qua, strombazzati su questa pagina pubblicitaria, insieme alle
altre attrazioni della giornata: la dimostrazione di judo,
l'esercitazione dei pompieri, il Wild West Show e una cosa che si
chiama Animalorama (per quel che ne so, potrebbe essere un errore di
battitura).
A
coronare il tutto, sulle due colonne a destra, c'è una foto che
ritrae i denti e buona parte della faccia di Brubeck accompagnata
dalla seguente didascalia, che vi offro appena parafrasata: ASCOLTATE
LA MUSICA CHE FA IMPAZZIRE I TEENAGER IN OGNI DOVE, e questo è,
ahimé, l'inizio. ASCOLTATE LA MUSICA CHE HA SCONVOLTO NEWPORT, RHODE
ISLAND (forse un riferimento al fatto che qualche settimana prima il
Newport Jazz Festival aveva provato per la prima volta il brivido di
una rissa1).
ASCOLTATE DAVE BRUBECK SUONARE E CANTARE I SUOI PIÙ
CELEBRI SUCCESSI: “JAZZ GOES TO COLLEGE”, “JAZZ IN EUROPE” E
“TANGERINE”.2
Adesso
che abbiamo capito quale sorte ci attende torniamo alla fiera3,
dove ci si presenta più o meno questa scena: c'è una pista da
atletica ovale piuttosto piccolina, direi quasi mini (non ho idea di
quanto sia lungo un quarto di miglio, ma qui di sicuro ce ne sono
pochi). Da un lato dell'ovale c'è la tribuna, che può accogliere
più o meno 2000 persone; al momento è occupata da otto o nove
anziani che certamente hanno pagato il biglietto per stare seduti
all'ombra e farsi aria col ventaglio, piuttosto che mossi dal
bruciante desiderio di ascoltare la musica che fa impazzire i loro
nipotini in ogni dove.
Dalla
parte opposta della pista c'è il nostro palco: una base di legno,
alta circa tre metri e immensa. Evidentemente non è stato possibile
localizzare un pianoforte nella Contea di Orange, dato che l'unica
attrezzatura presente sul palco è costituita da un microfono e un
vecchio organo elettrico. Dietro di noi c'è un tendone – da fiera,
per l'appunto – dove circa duecento persone stanno assistendo a uno
spettacolo di cavalli per ragazzi il quale, scopriamo leggendo il
programma, è previsto debba continuare per tutta la durata del
nostro concerto. Una mossa piuttosto rischiosa, soprattutto perché
il loro impianto audio è decisamente più potente del nostro.
Ed
eccoci attaccare con “St. Louis Blues”, il brano d'apertura per
le imprese disperate. Brubeck, che non ha mai passato più di dieci
minuti su un organo elettrico in tutta la sua vita, e molti di meno
su quello che sta suonando ora, riesce ad emettere suoni che
ricordano la manopola della sintonia di una vecchia radio
Atwater-Kent. Più tardi farà alcuni importanti progressi, quali
scoprire dov'è il pedale del volume e riuscire a dimenare la mano
destra in modo da ottenere un effetto di tremolo (tipo quello che
farebbe Jimmy Smith4
alle prese con un doposbornia letale), ma queste conquiste non
aiutano poi tanto. Nel mentre, io e Eugene Wright, il nostro prode
contrabbassista, ci trasciniamo dietro a turno l'unico microfono
disponibile, suonando assoli ringhiosi ma destinati al fallimento,
visto che l'unica cosa che riusciamo a sentire arriva dal nostro
amichevole vicino: il tendone dei cavalli.
“PASSO,”
ruggiscono gli speaker. “PICCOLO GALOPPO … TROTTO … E IL
VINCITORE DELLA CATEGORIA DODICI ANNI È … LA PICCOLA JACQUELINE
HIGGS!”
Come
sempre in queste situazioni difficili, ci rivolgiamo al nostro
fuoriclasse, la prima stella del gruppo, la Maria Callas dei tamburi:
Joe Morello, colui che ci salvò dal disastro in più di
un'occasione, dal concerto di Grand Forks, Nord Dakota, fino a quello
di Rajkot, India.
“Tocca
a te”, lo esortiamo, “stendili”, che di solito è come dare un
biglietto aereo a un dirottatore. A sua eterna gloria, va detto che
Morello si supera: tutti i piatti sfrigolano, tutti i piedi pestano
(Morello ne ha più di due, non tutti lo sanno). Ed eccolo sfoderare
le sue celebri terzine sui tamburi, che già scossero più
fondamenta, dall'Odeon Hammersmith alla sala delle feste della Camera
di Commercio; le stesse terzine che fecero diventare Buddy Rich5
più verde del solito per l'invidia.
Tutto
ad un tratto lo spettacolo dei cavalli tace. Lo sventagliarsi sulla
tribuna è leggermente scemato.
All'improvviso
una figura umana sbuca come una furia dal tendone dei cavalli, va a
schiantarsi sul lato del nostro palco e urla a Brubeck: “Ma
Cristosantissimo, non è che può dire al suo batterista di suonare
più piano? Mi sta spaventando a morte i cavalli!”
Essendo
un gruppo che riconosce sportivamente la sconfitta, suoniamo una
specie di Muzak di sottofondo per il resto del set, quindi ci
dileguiamo.
Al
nostro ritorno, alle 20, tutto è cambiato. È stato trovato un
pianoforte, la tribuna è gremita del nostro solito pubblico
geriatrico dai venticinque in su, e noi facciamo un concerto più che
decente.
Nonostante
ciò, veniamo oscurati dal Gran Finale della fiera: l'esercitazione
dei pompieri. Alcuni cittadini sono stati avvolti in garze e bende in
modo da apparire come se fossero in attesa dell'estrema unzione dopo
essere saltati per sfuggire al disastro dell'Hindenburg.
Invece di rimanere discretamente nell'ombra in attesa del loro grande
momento, durante la serata le mummie socializzano tranquillamente con
amici e conoscenti, bevendo birra e mangiando popcorn, imprimendo
così all'assembramento un'atmosfera strana, quasi felliniana, nonché
diminuendo considerevolmente l'impatto della loro comparsa ufficiale.
Dopo
la loro parata è il momento degli eventi principali della fiera,
chiaramente il frutto di mesi di meticolosa progettazione: un
incendio derivato da un incidente automobilistico, seguito da un
incendio causato da un incidente aereo, entrambi organizzati per
essere gestiti con prontezza ed efficienza dal Corpo dei Pompieri di
Middletown. A un'estremità dell'ovale c'è un'auto in equilibrio
precario; dalla parte opposta c'è la parodia piuttosto
impressionante dello scheletro di un aereo monomotore con la coda in
su. Al centro, il camion dei pompieri di Middletown, irto di scale e
manichette antincendio e straripante di volontari.
Il
silenzio scende fra gli spalti. A un cenno del capo dei pompieri
l'automobile viene incendiata. Il camion la raggiunge in due o tre
secondi, durante i quali l'incendio raggiunge le ragguardevoli
dimensioni di un fuoco causato da un mozzicone di sigaretta caduto
sul sedile per, diciamo, due o tre secondi. Le fiamme vengono estinte
da molti uomini dotati di svariate manichette antincendio.
Un
mormorio attraversa gli spalti. Il capo dei pompieri, dolorosamente
conscio che il suo momento dell'anno è imminente, dà il segnale per
incendiare l'aeroplano e, allo stesso tempo, ordina al camion di
prendersela comoda, affinché al suo arrivo il fuoco possa divampare
in tutto il suo splendore. Il camion parte con il passo di un taxi
alla ricerca di un cliente. All'improvviso l'aeroplano è avvolto da
un WHOOSH! come un flash fotografico e, nel tempo che il camion
flemmatico ci mette ad arrivare, il tutto si è ridotto alle
dimensioni di un allegro fuoco da campeggio, grande giusto per
arrostirci i marshmallow.
Più
tardi, pallidi in viso, sguardi risoluti e silenziosi, quattro uomini
si ammassano in una station wagon e ripartono. Non sarà come
rapinare banche, ma ci si campa.
“How Jazz Came to thr Orange County State Fair” Copyright © 1973 by the Estate of Paul Desmond.
NOTE di Farnedi
1Il
pubblico abituale di questo tranquillo festival jazz era composto
perlopiù da studenti universitari e da coppie di mezz'età
appassionate di jazz, per cui la prima rissa fu salutata come una
piacevole novità, credo (NdF - nota di Farnedi).
2In
realtà non c'è nulla che faccia pensare che Dave Brubeck abbia mai
cantato in pubblico, men che meno che l'abbia fatto in un disco,
almeno non in quelli elencati dal titolo di giornale (NdF).
3In
realtà il testo recitava così: “So, now realizing – in
Brubeck's piquant ranch phrase – which way the hole slopes”.
Ovviamente non son stato capace di tradurre quello che penso sia una
parodia di qualche modo di dire americano, ma la traduzione
letterale è più o meno così: “Quindi, ora che abbiamo
capito – per dirla con la colorita espressione da fattoria di
Brubeck – da che parte pende il buco, torniamo alla fiera”.
Anche se non son sicuro di aver
capito cosa voglia dire, “da che parte pende il buco”
mi fa molto ridere, per cui ve l'ho messa qua. (NdF)
4Jimmy
Smith è stato probabilmente il più famoso virtuoso di organo
Hammond della storia del jazz (NdF).
5Buddy
Rich, storico virtuoso della batteria, famoso anche per i suoi
scatti d'ira disumani. Uno dei suoi musicisti lo registrò a sua
insaputa durante una delle sue rituali sfuriate dopo un concerto. Il
nastro, ricco di fantasiose ingiurie e minacce di percosse
altrettanto creative, dagli anni '70 si è diffuso col passaparola
nel mondo dello spettacolo americano, diventando un classico (NdF).
per chi fosse interessato, ho trovato un blog con il testo originale
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